Rosario Foglia

Dall'impegno alla poesia

Arte Mediterranea: ARTE FLORENSE:  La bella popolana  Rosario FOGLIA © 2003 copyright

La bella popolana - Rosario Foglia



Se Salvatore Inglese ha analizzato le implicazioni psicopatologiche e il terreno antropologico dell'emigrazione, Rosario Foglia ne ha imprigionato, in molte sue tele, il grigio chino e, d'altro canto, pervasivo, pressore.

Anche negli oggetti fissi d'una polverosa e vecchia povertà; pure in quelle cose, d'uso comune, quasi senza sfondo e profondità: la bottiglia, per esempio, di colore verde bruno e densa di fuliggine. Quella che richiama la rigidità del freddo interiore, la legna consumata, i valori d'una stanza, sola col camino, e la disperazione ritmata dai sorsi d'un cupo e amaro rosso, perfino al femminile. Un rimando, molto poco forzato, al lavoro come dramma lacerante e al sangue della donna, al mestruo, che, poi, Foglia ha reso protagonista di un violento riscatto politico, assennato e dissacratorio. E, ironia della sorte, questo tragediografo dell'emigrazione ha seguito la scia d'Inglese o, probabilmente, lo psichiatra ha percorso il cammino, d'allontanamento, del pittore. Entrambi hanno messo a fuoco la verità, o parte di essa, sulla fuga dalla terra d'origine, le sue ragioni, la memoria, il conflitto, la reazione di chi è restato.

Foglia, isolato, ricordato qualche volta, è ignoto alla generazione dei cosiddetti "ribelli", quelli che hanno visitato parzialmente l'Abbazia Florense e nominano l'abate con un senso di estraneità e appartenenza; quelli che subiscono un'imposizione di sapere, il gioachimismo d'ufficio, accreditato per pigrizia rispetto ad altro.

Ciò per significare che la cultura non dimora nello scontato e nel riferito, vive nella scoperta.

Giusto di questa va detto, scrivendo qualche riga sopra un artista che ha solo una colpa originaria e una condotta recidiva: l'essere nato e il vivere a San Giovanni in Fiore.



Ora che, da Augé, certa generazione dello sperimentale post-sessantottino, specie un filone di registi votati all'icastica elettronica, pare abbia scoperto il fascino delle strade, per un'esposizione pubblica spogliata d'ogni procedura burocratica, Rosario Foglia si può ritenere il più grande intellettuale della città florense, superiore, per acutezza e rabbia coerente, a chiunque altro.

Ma questo gli rende appena delle briciole, considerato che la sua città - o il suo paese - non gli ha mai reso tributi né attenzioni di sorta. Ed è magra consolazione, poiché Foglia non è di questo luogo, di questo forno crematorio delle ricerche dell'anima, di voli autentici nel cielo delle idee, di preziosi arrischi evolutivi.

Difatti, il pittore del "male assegnato", al quale riserva alcune sconsacrazioni tipiche di De Sade, con scopo altro, ha inventato, ai tempi della recessione economica, la Strada dei quadri: raffiguranti "oscenità" in serie, bramosi atti carnali d'una "sessualità maledetta", tardi autunni operai, atmosfere postatomiche, secondo la legge dell'eterno ritorno, scene di lesbismo politico o di sogni, coscienti, da privazione.

Come in Attesa in cantina, olio su tela, del 1980. E questa operazione - che, allora, ottenne l'unanime disprezzo e la censura laica e religiosa - ha, perlomeno, tre obiettivi che s'incrociano: la pubblicità dell'opera e la sua gratuità, la messa a nudo, su muro, di una diffusa disumanità, il ricupero estetico di vie casuali, senza piani ex lege e regole di transizione. Cioè: trenta anni fa e passa, Foglia ha appeso i suoi lavori dove capitava, creando un vero percorso di significato, rendiamoci conto, in un contesto di totale chiusura e di morali parallele, nel quale si cercava il capro, per esorcizzare la subordinazione politica e la recisione forzata dell'emigrazione.

Ora, quasi inspiegabilmente, forse per la sagace ironia d'una confinata senescenza, Rosario Foglia esce con un catalogo di opere, Dall'impegno alla poesia, Pubblisfera, San Giovanni in Fiore, 2003. All'editore, è caro il tema dell'emigrazione, del viaggio: da Le braccia del mondo, di Francesco Mazzei, a Il passeggiatore solitario, di Emilio Arnone - soggetti con la luce. Il fatto colpisce solo perché Foglia non ha perduto la sua attualità. E, peraltro, lo spazio circostante è identico a prima, a quando il pittore incominciò lo studio di La mia gente nella città di Gioacchino da Fiore, nel 1965. L'espansione del capitale e la fluidità dell'Impero non hanno prodotto quella emancipazione e quell'autonomia culturale vantati dalla vecchia guardia, da quella stessa sinistra, preistorica, rapace e militaresca, rappresentata da Foglia, con uccelli, mentre la sua gente va, lasciando stoviglie e attrezzi per i campi.



Arte Mediterranea: ARTE FLORENSE:  La mia gente nella città di Gioacchino da Fiore  Rosario FOGLIA © 2003 copyright

La mia gente nella città di Gioacchino da Fiore

Rosario Foglia


L'anarchia di questo artista scomodante è palese e ad oltranza. C'è materiale junghiano, nei quadri di Foglia, c'è la condanna, inappellabile, della perversione repressiva, in ambito politico e morale, surrogata coi giochi erotici privati, vera forma, a suo giudizio, di libertà e comunicazione.

Come per Danilo Montenegro, altro grande irriducibile, il filo è simbolo di un'urlata poesia primordiale, per Rosario Foglia, la tana - o il luogo della partenza - diventa motivo di lotta e conquista sociale.

Emiliano Morone


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